Fuente: IO Donna
http://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2016/10/15/elisabetta-riva-ho-ridato-vita-a-un-teatro-come-al-mio-amore-semza-speranza/
E non era un palcoscenico qualsiasi ma l’unico italiano al mondo fuori dall’Italia: il prestigioso Coliseo di Buenos Aires. La direttrice generale ci racconta la sua battaglia e le sue armi. Che riguardano soprattutto l’empatia e la forza di volontà. Secondo l’insegnamento che il destino le ha offerto quando l’allora fidanzato era in punto di morte.
Elisabetta Riva al Teatro Coliseo di Buenos Aires (Foto Enrico Fantoni).
«Stavamo partendo per Bali quando Bino, il mio fidanzato di allora, ha avuto un infarto e un’anossia cerebrale. È rimasto in coma tre giorni, già parlavano di donazione d’organi, ma né io né la famiglia né gli amici ci siamo arresi. Con il sostegno dei medici e un lavoro quotidiano, durato due anni, l’abbiamo accompagnato a recuperare le sue facoltà. Oggi sta bene».
Un’incredibile lezione di vita di cui la milanese Elisabetta Riva ha fatto tesoro anche molto tempo dopo, quando è stata chiamata a rilanciare il Teatro Coliseo. Il secondo più importante di Buenos Aires (primo è il Colón), nonché l’unico di proprietà dello Stato italiano al di fuori del nostro Paese. «C’era un’analogia tra le due situazioni: pure in questo caso un organismo (gli edifici hanno un’anima) era malato e andava riabilitato. Bisognava sistemarne la struttura e ricostruirne l’identità, la memoria. Non esisteva neppure un archivio che ne documentasse la lunghissima storia, iniziata nel 1905. Il maggio scorso lo abbiamo reinaugurato dopo un restyling totale: di facciata, hall, foyer e bagni si è occupato l’architetto italiano Giuseppe Caruso, dei camerini e delle macchine sceniche – d’assoluta avanguardia tecnologica – l’argentino Alfio Sambataro. Questo mio ufficio era uno sgabuzzino pieno di spazzatura. Però no, non c’è nessun aneddoto tipo il fantasma dell’opera» scherza Elisabetta, guidandoci verso il backstage. Il posto che preferisce: «Forse perché, essendo stata attrice, mi piace sentire l’adrenalina dell’artista che entra sul palco».
La platea del Teatro Coliseo (Foto Enrico Fantoni).
Ecco, partiamo proprio da qui: come arriva un’attrice da Milano a Buenos Aires? Per amore. Ho studiato recitazione all’Arts Educational School di Londra e uno dei miei compagni era un argentino. Che mi parlava spesso del suo miglior amico, Leonardo Kreimer. E a lui parlava di me, finché – dopo tentativi d’incontro falliti – il destino ha compiuto il suo ciclo portando Leo a Milano: faceva parte dei De La Guarda (l’innovativa compagnia argentina, ndr), arrivati in tournée nel 2005. Mi sono innamorata prima di lui e poi di Buenos Aires e continuo a essere sposata con entrambi, rispettivamente da dodici e nove anni. E per quali vie della sorte si ritrova a dirigere un teatro tanto importante, con una programmazione che spazia dal balletto alla classica, dal rock al jazz ai recital fino alle conferenze di Eckhart Tolle? Appena trasferita, ho cominciato a lavorare come produttrice (l’altro mio campo di specializzazione). Così sono entrata in contatto con l’Istituto italiano di cultura e con l’Ambasciata. Nel 2012, mi hanno voluta nella Fundación Cultural Coliseum: era necessario dare nuova linfa al teatro, in qualche modo uscito dalla mappa culturale. Qua la concorrenza è forte: si arriva a 500 spettacoli a settimana fra il circuito istituzionale, quello commerciale e l’off. A fine 2014, la nomina a direttore generale: mi occupo di tutto, dalla gestione alla programmazione. Ed è iniziata la rinascita. Grazie ai finanziamenti della città di Buenos Aires (l’equivalente di quasi quattro milioni di euro), senza nessun contributo italiano. Le maggiori difficoltà che ha incontrato? Pianificare, in un’economia così instabile (l’inflazione può arrivare al 40 per cento annuo). E far quadrare logiche diverse, da quelle macro, politiche (e in questo devo tanto all’aiuto dell’ambasciatrice, Teresa Castaldo) a quelle personali di chi lavora al Coliseo da tempo.
La hall del Teatro Coliseo (foto Enrico Fantoni).
Erano diffidenti perché donna? O perché italiana? Un po’ per tutto. Piombavo dal cielo, non sapevano chi fossi. Avevano assistito a vari tentativi di cambiamento, nessuno andato in porto: a volte chi si avvicina per rinnovare finisce col distruggere. Io invece mi sono messa in ascolto, procedendo in modo intuitivo (era la mia prima esperienza) e a volte turbolento, usando sia dolcezza sia durezza. Essere femmina aiuta? In genere abbiamo una natura più elastica… Nel mio caso è stata una complicazione. Mi hanno chiamato proprio quando è nato mio figlio Akira (sì, il nome è ispirato ad Akira Kurosawa). Però non è che un genere sia peggio e uno meglio. In alcuni casi preferisco collaborare con gli uomini: più sintetici, pragmatici, lineari. Il livello di cura del dettaglio delle donne può essere contropoducente.
I nuovi macchinari di scena, tecnologicamente avanzatissimi (foto Enrico Fantoni).
Il meglio è nemico del bene. Esatto. Se avessimo aspettato che i tempi fossero propizi, che l’inflazione calasse… Ogni epoca ha le sue difficoltà. Nessuno è onnipotente, ma mai mollare. Le nostre risorse sono immense e, se uniamo le forze, si possono fare miracoli. Come con il Coliseo. Come con Bino.
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